mercoledì 30 luglio 2014

Tao della Realtà Completa in Naturopatia


Da una lezione introduttiva alla “Naturopatia Umanistica® & Shen Training®” dell’Associazione Ego Center e della Scuola di Formazione Professionale Kairos s.t.l. di Parma:
«E’ molto difficile definire il Taoismo. Non solo l’oggetto della sua attenzione sfugge per sua natura a una definizione, ma i suoi modi d’espressione variano a tal punto, che non esiste un concetto capace di racchiudere tutte le forme di pensiero e di azione che vengono comunemente fatte risalire al Taoismo. Il corso del tempo e l’acquisizione di conoscenze attraverso la scienza della natura hanno convalidato tale pretesa di una conoscenza più alta, anche se essa non ha rivelato il punto più importante: quali sono stati i mezzi con cui fu acquisita da parte dei ricercatori mistici dei tempi antichi. 
Secondo lo Huainanzi, uno dei più noti classici del Taoismo, il Tao è “ciò in virtù del quale le montagne sono alte, ciò in virtù del quale gli oceani sono profondi, ciò in virtù del quale gli animali corrono, ciò in virtù del quale gli uccelli volano, ciò in virtù del quale il sole e la luna splendono”. 
In breve, il Tao è la legge generale e specifica dell’universo: ogni cosa ha il suo Tao, e ogni Tao è il riflesso del Grande Tao, del Tao Universale che comprende tutte le cose. Il significato di Tao è così totalizzante che Confucio, il grande educatore, arrivò a definire così l'inconcepibile appagamento che la sua comprensione procura: “Se percepisci il Tao il mattino, quella sera stessa puoi anche morire”. 
Il più antico eroe della cultura cinese, uno dei luminari del sacro universo taoista, è Fu Xi. Ritenuto depositario della conoscenza dei tempi più antichi, Fu Xi è considerato l’iniziatore del lavoro agreste con gli animali e dei simboli della scrittura. Fu Xi avrebbe ottenuto il suo sapere dallo studio scientifico dei fenomeni naturali, divini e umani, e la tradizione taoista include tali studi in un curriculum di superiore apprendimento e, da allora, questa tradizione è stata sempre mantenuta.
Dal mio libro “A Est di Anyang” traggo:
§ 1 - Agli inizi della proto storia, Fu Xi dominava il mondo.(1) Innalzato lo sguardo alla volta celeste, egli contemplò le immagini nel Cielo(2); abbassato lo sguardo egli meditò sugli accadimenti che avvenivano sulla Terra attraverso il comportamento degli uccelli e degli animali ed il loro adattamento ai luoghi (3). Contemplando il Cielo, egli partì direttamente da se stesso; contemplando la Terra, egli partì indirettamente dalle cose (4).
(1) Fu-Xi, mitico Imperatore dell’Alta Antichità, è considerato l’inventore della numerologia e dei trigrammi o Segni. Egli è considerato anche il primo dei grandi ordinatori del territorio cinese, unitamente a Shennong e a Huang-Ti, Imperatori che gli succedettero.
(2) A mio avviso Fu Xi rappresenta il passaggio da una civiltà essenzialmente nomade ad una civiltà prevalentemente sedentaria. L’innalzare gli occhi al Cielo è proprio di colui che è avvezzo a farsi guidare dalle stelle. 
(3) Fu Xi comprese le Leggi della Terra, e come esse potevano essere applicate all’Uomo, attraverso il comportamento degli animali. Il balzo avvenne (tra nomade e sedentario) quando, abbassando gli occhi verso Terra, egli, grazie all’osservazione attenta di ciò che lo circondava, capì quale poteva essere l’adattamento degli animali ai vari luoghi. Nasceva così l’allevamento stanziale di varie specie di animali, allevamento (nascita, crescita e fruizione) programmato dall’Uomo.
(4) Partire da se stesso significa partire dalla propria consapevolezza della realtà degli accadimenti cosmici e dall’intuizione e dalla comprensione di tutto ciò che non può essere visto ed esperito direttamente dall’Uomo. 

Perché Fu Xi potesse comprendere le Leggi Universali del Cielo, fu senz’altro necessario un lungo, profondo, percorso di Meditazione. 
Questa teoria può essere combattuta, ma non certamente confutata: è nel silenzio della mente discorsiva che il Disegno Originario può prendere forma  e il silenzio della mente discorsiva si ottiene solo con la Meditazione e un profondo, radicato senso di umiltà.
Perciò il sottile, l’essenza delle cose, è un’intuizione individuale; la realtà delle cose è una visione oggettiva di ciò che è. Ecco perché cita qui: «…partì indirettamente da se stesso».

E questo partire indirettamente da se stessi, avere questa umiltà di considerare comunque sempre parziali e soggettive le nostre sensazioni, emozioni e considerazioni è il fondamentale insegnamento della nostra Scuola, insegnamento da applicare però non solo nella professione di Operatori in Discipline Bio-naturali, ma anche in tutti gli atti della nostra quotidianità. Per cercare di essere sempre empatici verso ciò che ci circonda e ci coinvolge. 
Ed è anche questo è uno dei molteplici aspetti del concetto di Shen.


Commento a varie versioni del Daodejing (Tao Te Ching)



Nel Daodejing di Laozi vi sono tutte le indicazioni morali ed etiche taoiste. Innanzitutto bisogna ricordare che il taoismo predica, alla sua origine, l’importanza dell’identificazione individuale con il Dao (Tao), Principio Supremo, e cioè dell’annullamento della distinzione tra Io e mondo. Perciò l’imperativo morale consiste nel ritorno alla natura, nel non-agire, nel superare i conflitti sociali senza partecipazione emotiva. Bisogna quindi evitare ogni compromesso con il mondo e con la società: il taoista non solo applica la costante regola di rinunziare all’impegno politico, ma si sforza di recuperare la semplicità e la perfezione secondo il mito dell’origine, per conformarsi al Dao. L’uomo non deve cercare di sforzare la natura, ma deve inserirsi nel suo corso.
Un giorno ho letto, nell’introduzione a “La Via in cammino”, versione del Daodêjing di Luciano Parinetto, questa citazione tratta dal Fung Yu-Lan: «E’ sempre difficile comprendere e apprezzare pienamente scritti filosofici se non si leggono nell’originale, ciò a causa dell’ostacolo della lingua. Dato il carattere suggestivo degli scritti filosofici cinesi, l’ostacolo della lingua è ancora maggiore: la forza suggestiva dei detti e degli scritti filosofici cinesi è difficilmente traducibile; quando si leggono le traduzioni la forza suggestiva va perduta e con ciò si perde parecchio. Una traduzione, dopo tutto, non è che un’interpretazione. Traducendo una frase, ad esempio del Laozi, il traduttore dà la sua propria interpretazione e probabilmente non esprime che una sola idea mentre l’originale conteneva molte altre idee oltre quella espressa dal traduttore. L’originale è suggestivo ma la traduzione non lo è più, non lo può essere e la ricchezza dell’originale va perduta. Si sono fatte parecchie traduzioni del Laozi [...]. Ogni traduttore ha giudicato insoddisfacenti le altre traduzioni ma, per ben fatta che sia la traduzione, finisce sempre con l’essere più povera dell’originale. Occorrerebbe leggere tutte le traduzioni già fatte e quelle non ancora fatte per cogliere la ricchezza del Laozi».
A giugno (2014), quando ho deciso anch’io di scrivere “L’ennesimo Commentario al Daodejing”, seguondo però una mia particolare visione derivata dal Nei-Yeh e dai Daodejing rinvenuti nelle tombe a Mawangdui e Guodian,
ho deciso di riportare, all’inizio, le principali (o comunque quelle che io conosco) traduzioni di vari autori, in modo che il messaggio del Fung Yu-Lan non fosse da me disatteso.
Riassumendo, ho quindi riportato le due versioni “classiche” o di riferimento [Tomassini e Duyvendak], le due versioni filologiche [Lanciotti e Andreini], una versione in chiave “dialettica” [Parinetto], una versione in chiave “metafisico-esoterica” [Evola], e una versione di un sacerdote cattolico [Larre]. Ho voluto poi aggiungere, quasi come appendice, quei brani che ho trovato tradotti da Alan Watts o la cui traduzione è stata rivista da Alan Watts nel suo libro Il Tao: la Via dell’acqua che scorre (Astrolabio, 1977). Si tratta evidentemente anche in questo caso di traduzione da traduzione, ma mi è sembrato significativo inserirli perché particolarmente chiari e comprensibili.
§ Tomassini
1 Il Tao che può esser detto 1b non è l’eterno Tao, 2 il nome che può esser nominato 2b non è l’eterno nome. 3 Senza nome è il principio del Cielo e della Terra, 4 quando ha nome è madre delle diecimila creature. 5 Perciò chi sempre non ha brame 5b ne contempla l’arcano 6 chi sempre ha brame 6b ne contempla il termine. 7 Questi che han stessa estrazione seppur diverso nome 8 ed insieme son detti mistero, 8b mistero del mistero, 9 porta di tutti gli arcani.
§ Duyvendak
La Via veramente Via non è una via costante. I Termini veramente Termini non sono termini costanti. Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il termine Essere indica la Madre delle diecimila cose. Così è grazie all’alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini. Questi due sebbene abbiano un’origine comune, sono designati con termini diversi. Ciò che essi hanno in comune io lo chiamo il Mistero, il Mistero Supremo, la porta di tutti i prodigi.
§ Lanciotti
Il Tao che può essere definito non è il tao costante. I nomi che possono essere nominati non sono nomi costanti. Senza nome è l’origine di tutti gli esseri, aver nome è la madre di tutti gli esseri. (Perciò) costantemente non aver desideri per osservare la sua essenza sottile; costantemente aver desideri per osservare i suoi limiti. Entrambe le cose hanno comune origine, e diversi nomi hanno comune espressione. Il mistero è di nuovo mistero, (la porta) di tutti gli arcani.
§ Parinetto
1 La via che è Via è un sentiero mutevole 2 E mutevole è il nome che la nomina 3 Cielo e terra antecede, senza nome. 4 Con nome, è madre degli esseri tutti. 5 L’arcano vedi sempre nel non essere; 6 vedi sempre nell’essere il pertugio. 7 Nascono insieme essere e non essere 7b E solo il nome li rende diversi. 8 E buio sono, quando son congiunti. 9 Buio nel buio: varco ad ogni arcano.
§ Andreini
1 La Via che come tale può esser presa, Via eterna non è. 2 Il nome che come tale può esser preso, nome eterno non è. 3 «Senza nome» è dei diecimila esseri il cominciamento, 4 «Ha nome» quel che dei diecimila esseri è la Madre. 5 Sicché nella costante cessazione del desio, se ne contempla il prodigio, 6 E nel costante desio se ne contempla il limite manifesto. 7 Comune han la fonte, distinti i nomi, eppur entrambi son designati: 8 «Arcano dell’Arcano», 9 «Acceso di ogni prodigio».
§ Evola
Il Tao che si può nominare Non è il Tao eterno Il Nome che si può pronunciare Non è il Nome eterno. (Come il) Senza-Nome esso è il principio di Cielo-Terra Col Nome [ossia: determinato come Cielo-Terra] è l’origine dell’infinità degli esseri particolari Così: chi è distaccato Percepisce l’Essenza Misteriosa. Di chi è offuscato dal desiderio Lo sguardo è arrestato dal limite [vede solo le apparenze fenomeniche del Principio]. Ora dei Due [il Nominabile e il Non-Nominabile, l’essere e il non-essere] Una è l’essenza, diversa solo la denominazione Mistero è la loro identità È l’insondabile fondo Di là dalla soglia dell’ultimo arcano.
§ Padre Larre
Via che uno enuncia Non è già più la Via nome che uno pronuncia Non è già più il Nome Senza nome Fece apparire il Cielo Terra Chiamato per nome È la Madre dei Diecimila esseri Senza desiderio Invita a contemplare il mistero Il desiderio considera i suoi aspetti manifesti Desiderio e Senza desiderio la stessa origine Due nomi differenti Sono di fatto insieme l’Origine E di origini in Origine La Porta del mistero meraviglioso
§ Watts
Il senza-nome è l’origine del cielo e della terra; Il dare il nome è la madre di diecimila cose. Ogni volta che non c’è desiderio (o intenzione), si osserva il mistero; Ogni volta che c’è il desiderio si osservano le manifestazioni. Queste due cose hanno lo stesso punto di partenza ma differiscono (a causa del)la nomenclatura. La loro identità è hsüan hsüan oltre hsüan, la porta di tutti i misteri.
{Watts intende per hsüan “quello che è profondo, oscuro e misterioso antecedente ad ogni distinzione tra ordine e disordine”}


lunedì 28 luglio 2014

Frammento di una lezione di Naturopatia Umanistica® & Shen Training®


Esiste il caso? A questa domanda, che mi è stata posta infinite volte dai miei allievi, proprio non ho una risposta certa. Un sospetto sì, ma una certezza... sarebbe, a dir poco, da parte mia, onnipotenza.
Però l’altro giorno ho preso in mano, dalla collezione di Patrizia (214 copie) 
un ‘Airone’  del dicembre 2002, la rivista edita da Giorgio Mondadori, nel quale si parla, oltre ad altri articoli, anche della medicina tibetana, anzi di una medicina che anche in Tibet sta scomparendo in quanto è applicata in modo assolutamente personale da ogni medico. Purtroppo (o fortunatamente?),  anche in Tibet sta avanzando al medicina moderna basata su concetti di sintesi e non su una fitoterapia reale (cioè con le erbe raccolte realmente ed essiccate in modo tradizionale).
L’articolo parla di uno di questi ultimi medici botanici di nome Dawa che vive nel villaggio Litang, a 4.000 metri di altezza e situato ai confini della provincia cinese di Sichuan.
Dice il dott. Dawa:
«Secondo la medicina tibetana tutte le malattie sono psicosomatiche perché derivano da uno squilibrio emotivo più o meno manifesto. I tibetani identificano come cause primarie dei malanni le tre emozioni conflittuali fondamentali, chiamate anche “Tre veleni”: attaccamento, avversione e confusione, raffigurati nei Quattro Tantra (il testo fondamentale della medicina tibetana, che risale probabilmente al XII secolo dopo Cristo). Queste emozioni fanno sì che spesso ci si comporti e ci si nutra in modo poco adeguato alla propria costituzione psicofisica, cosa che scatena la malattia. La diagnosi si basa su ciò che si vede», aggiunge il medico, «sul comportamento, sulla dieta seguita dal paziente e sulla palpazione di entrambi i polsi (un metodo derivato dalla medicina cinese) che permette di individuare lo stato degli organi interni e di auscultare il punto della durata della vita. L’importante è che il dottore veda sempre il paziente come una sola unità psicofisica e abbia un atteggiamento di viva sollecitudine verso tutti gli esseri viventi».
Questo articolo conferma ulteriormente, nel caso che ce ne fosse ancora bisogno, la validità della nostra Naturopatia Umanistica® basata sulle eccezionali intuizioni psicofisiche di Alexander Lowen e sull’approccio allo squilibrio fisico della millenaria Filosofia della Medicina tradizionale Cinese e, soprattutto, sulla necessità di un equilibrato stile di vita, l’immenso insegnamento che ci deriva dal Tao e che impregnava tutto il concetto di medicina della Cina antica.
Ecco perché la Scuola Kairos s.r.l. di Parma ha chiamato il suo insegnamento Naturopatia Umanistica® & Shen Training®. Ma è soprattutto nella parte Shen che si può trovare un’identità fra il nostro insegnamento e l’insegnamento della Medicina Tibetana: i ‘Tre Veleni’, cioè l’attaccamento, l’opposizione e la confusione (quest’ultima generatrice dell’eterna lamentela).
Queste tre fondamentali cause del malessere esistenziale che fanno parte ormai endemica del mondo occidentale (purtroppo oggi anche del mondo orientale) si possono risolvere veramente alla radice operando una sintesi armoniosa e armonica fra la bioenergetica occidentale e l’energetica orientale per mezzo di quello che noi consideriamo il nostro fiore all’occhiello: il ‘Tocco Shen’, meraviglioso strumento di crescita personale e professionale.
Dice un testo cinese antico: «Il medico, prima di intervenire, deve regolare il suo Shen». Questo significa che il paziente non è altro da noi ma una persona con la quale noi dobbiamo rapportarci in modo assolutamente empatico, corpo-mente-Spirito.

Immagine tratta dal ‘Ben Cao’ dell’Imperatore Xiao Zong


domenica 20 luglio 2014

Il Tao del Sé


Tutto ciò che noi siamo
è il risultato
di tutto ciò che abbiamo compiuto
Buddha
La Condivisione dell’Amore 
I fiori e gli alberi hanno sole e pioggia per aiutare il loro fiorire. Come esseri umani, noi dovremmo avere l’amore che ci aiuta a crescere e ad essere. Se noi erigiamo delle barriere al dare e ricevere amore, noi, nella nostra follia, possiamo inibire tanto noi stessi che quelli che ci amano, dall’esprimere quell’amore. Quando noi viviamo nel vero essere, che è il ‘sé’, noi realizziamo il nostro potenziale ad amare e ad essere amati.
Talvolta noi ci neghiamo l’esperienza di amare, perché temiamo che se riceviamo amore, potremmo essere o diventare indegni di esso e così lo perdiamo. Questa paura può essere causata dal vivere in una società che valuta quello che essa chiama ‘il successo’, e condanna ciò che chiama ‘il fallimento’. Tale società può generare il successo soltanto a spese di quelli che essa descrive come falliti. Se nelle nostre menti vivremo questa paura, avremo timore perfino di sviluppare il nostro stesso potenziale, per paura poi di fallire. In questo modo noi neghiamo il nostro proprio essere, cioè il nostro ‘sé’. 
Solamente quando avremo il vero essere, che è il ‘Sé’, non avremo più bisogno di un sé centrato sui pensieri ed azioni. Allora saremo pronti a condividere l’amore con le nostre controparti, aiutandoli a realizzare il loro stesso ‘essere-sé’, ed aiutando così anche la realizzazione del nostro stesso essere-sé. Nell’atto di condividere amore, ognuno di noi accetta che l’altro abbia gli stessi diritti che abbiamo noi, e così noi non saremo gelosi dei conseguimenti degli altri, ma daremo loro il benvenuto e li condivideremo come il nostro stesso ‘sé’, come frutto dell’amore. Nell’atto di condividere amore, noi non cerchiamo le imperfezioni dell’altro. Noi cerchiamo le nostre stesse imperfezioni e daremo loro il benvenuto, aiutando la nostra controparte a superare anch’essa quelle imperfezioni; così, noi ci aiuteremo l’un l’altro a crescere perché cambieremo la nostra funzione primaria, che non sarà più quella di soddisfare le nostre necessità ma quella di prendere in considerazione le necessità della nostra controparte, dandole così una priorità uguale alla nostra nostra. In un tale atto di amore condiviso, potremo usare i nostri corpi per creare una bellezza che entrambi si potrà condividere, e così diventarne parte, perché in questo atto non c’è alcun soggetto e nessun oggetto, in quanto entrambi ci faremo uno attraverso l’unione dei due.
Sfortunatamente, non è comune per la società insegnare ciò. Ma questo non significa che noi non si possa fiorire come i fiori, perché se noi viviamo la nostra vita al massimo, completando il nostro essere-sé, non rifiuteremo ciò che la vita ci presenta, anzi useremo le nostre esperienze per aiutare la nostra maturazione.

Tratto da uno scritto di Barry Kapke, director DharmaNet International, Berkeley.



venerdì 18 luglio 2014

L'anatroccolo fortunato


Abbiamo ricevuto da un nostro amico una mail con una vicenda tenera che vogliamo condividere con voi: 
«Mentre aspetto mi moglie che è andata ad esplorare un piccolo sentiero di montagna,  mi cerco un parcheggio all’ombra e lo trovo proprio di fianco ad un torrente, piccolo ma assai impetuoso e rumoroso, nei pressi di un ponticello. Passeggio un po’ avanti e indietro guardando le cascate  e l’acqua che fa i mulinelli in una pozza, quando vedo qualcosa che  galleggia sull’acqua. Mi sembra dapprima un pezzo di legno, ma poi mi sporgo e vedo che si tratta di un anatroccolo di 10 o 15 giorni che nuoticchia nell’acqua cercando di uscire da un piccolo mulinello. Pensando che il nido sia lì vicino, mi limito a guardarlo ma poi, quando capisco che è da solo, cerco di attirare la sua attenzione fischiando. Appena mi vede e sente il fischio mi risponde, iniziando a pigolare forte e insistentemente, come se cercasse aiuto. A quel punto penso che anche se mi dovrò immergere fino alla vita (vestito per giunta) per raggiungerlo lo farò, non mi importa come, ma non posso pensare di lasciarlo lì in difficoltà. Lui pigola pì pì pì pì e io rispondo fischiando fì fì fì fì! 
Nel frattempo passa una Panda della Polizia Provinciale e i due poliziotti si fermano e vengono a vedere cosa sta facendo quell’uomo in riva al torrente. Io, imbarazzatissimo e con modi fantozziani, gli faccio vedere il paperino pensando che tanto non gliene fregherà di meno. Invece uno dei due si agita parecchio e vorrebbe recuperarlo, ma prima va con il collega alle case a monte per chiedere se lo hanno smarrito loro. 
Nel frattempo, continuo il richiamo e il paperino risponde sempre e prende il coraggio di nuotare risalendo la corrente per un pezzetto, attraversa il torrente fino a che non riesce a salire su uno scoglio lì sotto di me.
Poco dopo arriva mia moglie e riproviamo a chiamarlo col solito fischio e con sorpresa nostra, il batuffolo ci risponde vicinissimo. Poi riusciamo a vederlo, nascosto tra gli equiseti che ci guarda, proprio a un metro dai nostri piedi. E’ riuscito a risalire l’argine verticale di due metri! 
In quel momento tornano i poliziotti. Lui, vista la folla, attraversa la strada spaventato e si nasconde sotto la mia macchina.
A quel punto siamo in quattro a cercare di farlo venire fuori; alla fine mi si avvicina trotterellando e riesco ad acchiapparlo sotto la macchina e a tirarlo fuori. 
La mini indagine dei poliziotti non ha portato a nulla. Nessuno ha smarrito un pulcino di anatra. Ma per fortuna uno dei due poliziotti ha un figlio che stava cercando da tanto un paperino, tanto terreno, acqua corrente e una moglie appassionata di polli e anatre, quindi quale miglior casa per il piccolo orfano? Lieto fine!
C’è un detto che recita “Quando un orfano piange, trema perfino il trono di Dio”. Non so se valga per gli animali, però sicuramente quella vocina che chiamava aiuto adesso non piange più!
Quindi oggi pomeriggio quattro esseri umani si sono spostati dalle loro lontane dimore e si sono incontrati in una valletta sconosciuta e semi abbandonata nello stesso momento, al fine di soccorrere un anatroccolo di circa 40 grammi, che aveva smarrito la mamma. 
Strano eh? 
Beh, io che sono credente, ho pensato che davvero Dio c’entrasse qualcosa!».
Commento di Pino.
Se non fosse una storia estiva, avrebbe potuto essere una splendida storia di Natale. Non tanto per il nostro amico che sappiamo quanto abbia un animo gentile e quanto in lui alberghi l’amore universale, quello che noi chiamiamo Shen. Però è eccezionale che due anime, quella del paperotto e dell’uomo, abbiano creato un legame: il papero ha sentito di non essere più solo a combattere con il mulinello e l’uomo ha trasmesso empaticamente il suo desiderio di aiuto. 
Questa storia mi ha fatto tornare alla mente un fatto accadutomi tanti anni fa. Avevo ventitré anni ed ero in vacanza ad agosto a Peschici, allora ancora un genuino paese pugliese. Io sono nato al mare e fra me e il mare è sempre esistito un forte legame d’amore e di rispetto. «Se rispetti il mare» mi diceva il mio mentore, un nostromo in pensione «il mare non ti ucciderà». Ed io ho sempre dato ascolto a quell’insegnamento ricevuto quando avevo circa sette-otto anni. Però, come a volte succede, commisi una sciocchezza. Il mare di Peschici non era il mare della mia Liguria: quest’ultimo subito profondo, quello poco profondo e sabbioso, non come il mare di Versilia, ma quasi. Da sempre, quando il mare era mosso, noi giocavamo a tuffarci nelle onde e poi ad abbandonarci ad esse che, per ringraziamento, ci spiattellavano a riva (anni dopo scoprii che eravamo come il tuffatore di Zhuangzi). L’unica cosa  che bisogna fare è tuffarsi a mezza altezza, perché se ti tuffi troppo sotto, il risucchio dell’onda ti porta al largo e non a riva. Quella volta sbagliai e mi trovai oltre la linea di ritorno. I miei amici videro subito che ero in difficoltà e, mentre loro cercavano di fare una catena umana per raggiungermi, io nuotavo solamente per mantenere la posizione e non essere portato al largo. Dopo più di mezz’ora di inutili tentativi, stavo già preoccupandomi di non esaurire le mie forze e affidarmi al mare sperando in un approdo altrove, quando uno sconosciuto, dalla riva, superando il frastuono delle onde, mi gridò: «Arriva la settima onda!». Quella della settima onda non è una favola. Quando il mare è in tempesta ogni tanto, magari non sempre ogni sette, arriva un’onda più grande delle altre. Mi voltai, la vidi, capii che quella era la mia grande possibilità, l’attesi, e, quando giunse, cominciai a nuotare con tutte le mie forze cavalcandola come fanno i surfisti e quando sentii che mi prendeva e mi sommergeva facendomi rotolare dentro di essa capii che ce l’avevo fatta. Ricordo che mi feci trascinare il più a riva possibile, con la gioia nel cuore. Ora, il fischiare del mio amico mi ha fatto venire in mente quello sconosciuto che era anch’egli in angoscia per me e mi diede lo spunto per farcela.
Ma la storia ha per me anche altri risvolti. Un altro uomo, il vigile, è contento che il papero si sia salvato e, visto che non è di nessuno, ha pensato al figlio che tanto desiderava un anatroccolo e alla moglie che lo avrebbe accudito con amore e, in una valle fra la Liguria e l’Emilia, quattro persone mandavano al Cielo un inno di amore e di vita. Perché sino a che ci saranno persone così a questo mondo, la Terra ha ancora delle possibilità.


giovedì 10 luglio 2014

L'amore e la sessualità nell'antica Cina



Amore e sessualità taoista

Nella Via dei Maestri cinesi antichi le relazioni amorose giocarono un ruolo predominante per la realizzazione dell’’Armonia di Yin-Yang. Sotto quest’ottica, la donna ebbe un ruolo molto importante nella società e fu una compagna indispensabile per i ‘riti di passaggio’ (guodu) o ‘unione dei soffi’ (heqi) che introducevano l’uomo alla consapevolezza dell’amore nella relazione di coppia e nell’atto sessuale. Secondo la visione energetica taoista dell’uomo, le energie maschili (chiamate soffi gialli) e le energie femminili (soffi rossi) si univano in una totale armonia, in accordo con le forze cosmiche e nella purezza dell’innocenza.



Le maniche di seta fine si arrotolano nel vento;
Le forcine di giada brillano sotto gli alberi.
Con il ventaglio rotondo raccoglie i fiori caduti;
Poi di nuovo lo solleva, a velare una traccia di sorriso.

“Quando un perfetto si trova in presenza di un’altra luce, ciò che deve valutare è l’unione con questa luce, l’amore tra le due luci. Benché siano chiamati uomo e donna è semplicemente un modo per far comprendere ciò che può essere rivelato. Se il perfetto custodisce in sé la consapevolezza dell’armoniosa unità del giallo e del rosso, soffio unico, unificante e unificato (yiqi), allora potrà vedere manifestarsi in lui gli Spiriti soprannaturali (Shen), ed averli per compagni. Perché solo lo scambio tra maschile e femminile permette di accedere al soffio unico, poi al Dao, sia che questo scambio sia corporeo o ideale”.

Amore, la mia poesia
Somiglia ai piccoli fiori senza nome
Che si aprono quieti
In mezzo alle umane solitudini,
seguendo brezze e piogge di stagione.

“Lo Yang in seno allo Yin è chiamato nu (donna), conoscere la gioia dell’unione dei soffi d’amore è chiamato zhen (perfezione)”.

Ho custodito gelosamente 
per tutta la vita
la lampada di smeraldo.
Prendila: è senza fine.
Perché una volta acceso
l’amore è l’amore.


mercoledì 9 luglio 2014

L'albero di Patrizia Vetri


I’m Following a Tree.
(Cioè, per quei pochi che, come me, non sanno l’inglese: sto seguendo un albero).
Cominciamo dall’inizio: per quanto personalmente faccia fatica ad ammetterlo, non tutto l’Internet viene per nuocere. Cioè? Cioè mio figlio mi ha segnalato un’iniziativa anglosassone trovata sul web che mi ha subito affascinato. Si tratta di scegliersi un albero e di seguirlo nel corso dei mesi e delle stagioni, visitandolo periodicamente, fotografandolo e descrivendo brevemente il suo aspetto e le sue trasformazioni nel tempo. Ovviamente, si può condividere sul web questa esperienza, che sembra affascinante.
Già, gli alberi. Millenari amici dell’uomo, fornitori di riparo, ombra, cibo, utensili ma anche assistenza spirituale. Infatti, il loro periodico morire e rinascere ha fatto dedurre, agli antichi, la possibilità della vita dopo la morte, ha dato la speranza del ritorno e fatto comprendere che quel riposo che noi definiamo eterno non è in realtà un atto definitivo ma un giusto periodo di latenza durante il quale si prepara una nuova vita futura.
Alberi, con le radici nella terra e le braccia tese verso il cielo, immagini dell’uomo stesso e del suo desiderio di elevazione, quanti miti, storie, fiabe hanno alimentato! Quante metamorfosi da uomo/donna ad albero a significare e rappresentare le emozioni che ci percorrono continuamente e che gli antichi conoscevano meglio della moderna psicologia! Da Filemone e Bauci, trasformati in quercia e tiglio piantati nello stesso prato per rimanere vicini anche dopo la morte, come lo erano stati in vita, a Dafne trasformata in alloro da Apollo, a Side diventata melograno e Filira, madre del centauro Chirone trasformata in tiglio. 



Indipendentemente dalle leggende, chi non ha provato solenne reverenza, gioia pura e senso di protezione trovandosi ad accarezzare una corteccia rugosa, ad ammirare una chioma folta tra cui filtra la luce del sole?
(O chi non ha sognato o costruito da bambino una casetta sull’albero, un ritorno alla civiltà arboricola? - nota di Pino).
Bene, le parole da dire sarebbero mille, ma vogliamo passare subito all’esperienza. Così siamo andati, Pino ed io a sceglierci un albero. Non vi dico in seguito a quali vicissitudini e ripensamenti, la scelta è caduta su un enorme platano che si trova nella Reggia di Colorno. E’ un vecchio gigante, probabilmente piantato proprio al tempo della Duchessa di Parma Maria Luigia. Si riconosce tra gli altri perché il suo fusto enorme è praticamente ridotto ad un sottile strato a forma di semicerchio che regge tutto il poderoso impalco dei rami, E’ cavo per diversi metri di altezza ed entrandovi ci si trova in una caverna oscura, rischiarata in alto dal verde delle foglie, Fuori, il mondo è una fettina di esistenza comune che quasi non ci riguarda più. Le radici si aggrappano alla terra come poderose zampe di leone decise a trattenere legato alla vita questo essere enorme. 



Tra di esse troviamo un nido caduto, un groviglio di rametti, foglie e terra, che il vento forse ha scosso via dai rami dopo che era stato abbandonato dai suoi aerei abitanti. Lo abbiamo portato con noi tenendolo delicatamente fra le mani per non sciuparlo. Profuma di muschio e di erba secca.



Per oggi lasciamo il nostro gigantesco amico in compagnia dei suoi simili che stendono le braccia verso di lui, come a chiedere o a dare protezione. Torneremo a trovarlo nei solstizi e negli equinozi per raccontarvi le sue trasformazioni. Nel frattempo, perché non scegliete anche voi un albero da seguire, per amarlo e farvi amare?

giovedì 3 luglio 2014

La "Spiaggina" da Meditazione di Patrizia Vetri



La “Spiaggina” da Meditazione
di Patrizia Vetri

La “spiaggina” da meditazione non è un luogo ameno in riva al mare dove ritirarsi a pensare. Adesso vi spiego cos’è.
Premessa: da un po’ di tempo frequento un gruppo che potrei definire ‘di meditazione’. Si sta in terra tutto il tempo e mentre i più giovani e abituati si accontentano di stendere sul pavimento una sottile stuoia o qualche cuscinetto, le persone della mia età (e non abituate) soffrono penosamente assestandosi su cuscinoni, materassini, pouf e altri arnesi che però non sono mai all’altezza della situazione.
Il Maestro dice spesso «Se c’è un diritto che avete è quello di stare comodi» invitando noi ‘vecchietti’ ad accomodarci sulle sedie. Talvolta lo faccio, sentendomi però un po’ emarginata. Così l’idea luminosa nasce quando avvisto in un grande magazzino una “spiaggina”, leggi una di quelle seggioline di plastica che taluni usano per sedere in riva al mare. Si è quasi al livello terra, ma la schiena dispone di un comodo schienale. La acquisto subito (€ 12,00!)
però è un po’ squallida. Come si fa a  stare davanti al Maestro su una “spiaggina” di plastica verde? Devo fare qualcosa! 
Detto, fatto!
Metro da sarta alla mano, con Pino che mi accompagna con il compito di calcolatrice vivente e consulente sulla reale fattibilità del progetto, creiamo un modello su misura di materassino carino, ma soprattutto comodo e, perché no, elegante, da realizzare subito. Due pezzi di imbottitura, una vecchia tenda obsoleta ma ancora piena di colori, che trasformo in una fodera, addirittura dotata di tascona posteriore. Essa mi servirà per infilare i mille oggettini (golfino, fazzoletto, monete, quaderno, penna, bottiglietta dell’acqua, ecc.) che non so mai dove mettere e che spesso mi rovo a dover recuperare tra le gambe degli altri partecipanti e il gioco è fatto. Il materassino accessoriato nasce ed è un piacere vederlo, tanto che mi è venuta voglia di parlarvene e di mostrarvelo. Ne sono molto orgogliosa e sono appagata di aver completato quel ciclo di creatività che tanta gioia e autostima dà all’uomo e che è composto di quattro fasi:
1) Sentire un bisogno
2) Progettare una soluzione (magari in compagnia)
3) Realizzare il progetto
4) Utilizzare ciò che si è realizzato
E’ questo il ciclo che ci ha permesso di evolvere e che oggi è forse un po’ dimenticato. Infatti i bisogni vengono sedati ancor prima di insorgere e non c’è nessuna necessità di progettare né realizzare nulla, dal momento che il mercato ci fornisce già pronte tutte le soluzioni. Io sono stata fortunata: all’oggetto a me necessario non aveva ancora pensato nessuno, forse perché il ‘trend’ di vecchia signora artritica, ma vogliosa di continuare a vivere piacevolmente. non è di grande interesse per l’industria.
Meglio così: la mia “spiaggina” bella e comoda è qui e la potete copiare quando volete. Non c’è copyright.