mercoledì 28 dicembre 2016

Il Maestro daoista

Il daoismo si rivela come una rappresentazione simbolica del mondo e, sul piano umano, come una percezione, una comprensione diretta della vita. Entrare nel Dao è un’esperienza intuitiva in quanto cancella ogni distinzione tra l’oggetto e il soggetto, tra l’Io e il non-Io.


Attraverso il linguaggio lineare:
- Il Maestro occidentale fa sì che ogni giorno l’allievo acquisisca qualcosa in più sul piano del sapere.
- Il Maestro daoista non si preoccupa di trasmettere all’allievo un sapere, ma di insegnargli ad essere, spezzando la logica delle relazioni fra le parti e delle parti col tutto. Dice una massima daoista: “Il buon allievo ogni giorno perde qualcosa”.
In occidente pensiamo che con il linguaggio si possa esprimere tutto, basta rispettare la triade soggetto-verbo-complemento oggetto, dove il soggetto è il fulcro della frase. Il daoista invece è alle prese ogni giorno con il concetto: “Come posso esprimere l’inesprimibile?”.
Infatti: il linguaggio lineare dialoga con la nostra mente, solo qualche volta anche con il cuore.Le parole dell’erudito devono essere comprese; le parole del Maestro non si devono comprendere: bisogna ascoltarle come si ascolta lo stormire del vento tra gli alberi, il rumore del fiume, lo sciabordio delle onde, il silenzio delle stelle, il rombo lontano del tuono, il ticchettio della pioggia, il leggero fluire delle nuvole in cielo, il canto degli uccelli. Solo così quelle parole potranno risvegliare nel cuore qualcosa che è al di là di ogni conoscenza. Il Maestro apre agli allievi la possibilità di divenire, a loro volta, Maestri. E’ una strada aperta, identificabile con la parola cinese Dao: la Grande Via.
Infatti essa permette di coltivare la consapevolezza, la forma più elevata della coscienza umana: “Essenziale è continuare a camminare su questa strada, sulla strada che i miei Maestri ed io abbiamo insieme camminato”.

lunedì 26 dicembre 2016

Come iniziare bene la giornata (Lao-zi: passare e ripassare)

Lao-zi, Daodejing: «L’Universo tutto è rappresentato in un granello di sabbia. Basta soltanto saperlo cogliere».
Cosa facciamo invece noi generalmente?
Siamo così intenti a cercare di riempire il nostro vuoto interiore che corriamo come meteore di qua e di là, così affamati di vedere e fare cose nuove che la maggior parte di esse ci sfugge, lasciandoci a pancia vuota. Facciamo un esempio pratico. Prendete come riferimento una qualsiasi vostra giornata. Che cosa fate appena svegli? La maggior parte delle persone pensa al lavoro che le aspetta o a come riempire la giornata che sta per iniziare. I più attenti, quelli che hanno del percorso meditativo alle spalle, guardano almeno fuori della finestra per guardare che tempo fa. Siamo appena svegli ed abbiamo già perduto un’infinità di occasioni.
Il primo pensiero che dovrebbe sorgere nella nostra mente appena apriamo gli occhi è un pensiero di ringraziamento alla Vita che un giorno ci ha animato e che adesso ci concede ancora un giorno da percorrere. La seconda azione dovrebbe essere quella di affacciarci alla finestra e fermarci un attimo per vivere il senso di questo ulteriore mattino, il suo profumo, la sua aria, la sua temperatura. E in questi elementi ritrovare tutte le nostre mattine, la nostra vita già vissuta, ricca di particolari, di ricordi, di emozioni, di realizzazioni, di insuccessi e di vittorie, di momenti di tensione e di pace, di azione e di quiete. 
Ci siamo svegliati da appena cinque minuti ed abbiamo già gli occhi pieni di luce e il cuore traboccante di sensazioni.
Questo è veramente quello che si dice: «Iniziare bene la giornata».
Esaminiamo ora il nostro comportamento per strada, mentre ci rechiamo al lavoro. Da casa al nostro posto di lavoro incontriamo generalmente decine, centinaia di persone, visi e sguardi che si incrociano con il nostro, ma dei quali non ce ne rimane alcun ricordo, non rimane nulla a noi di loro, né a loro di noi. In realtà ci siamo sbirciati senza guardarci, ci siamo incrociati senza incontrarci, siamo scivolati via perdendo l’occasione di aumentare la nostra esperienza cercando di capire nel viso degli altri la loro giornata, la loro notte, i loro sogni, le loro aspirazioni, i loro problemi, le loro miserie, le loro grandezza, il loro dolore e la loro felicità. 
Ombre che scivolano via in mezzo ad altre ombre e basta, ombre noi stessi, senza nessuna consapevolezza di questo scorrere, di questo incrociarsi, del senso di questa vita.
Passare e ripassare significa imparare a vivere e rivisitare in modo creativo i gesti ripetitivi del quotidiano affinché diventino sempre nuovi, significa spegnere il pilota automatico e cominciare a vedere, fare, essere; significa ritrovare ogni giorno una motivazione alla ricerca, alla sperimentazione. Vivere le esperienze del quotidiano in modo positivo significa saperle rivisitarle con spirito creativo per modificarle, perfezionarle, accelerarle o rallentarle con la mente concentrate nell’azione che stiamo compiendo, ancorata nel qui ed ora e non persa in pensieri del passato o del futuro.
Ogni cosa ha il suo tempo
Questo è valido per ogni istante della nostra vita: continuiamo, con tenacia e perseveranza, a viverli, visitarli e rivisitarli, saziamoci di essi, viviamoli corporeamente, non solo a livello mentale, perché il pensiero umano è atemporale, è nel corpo che possiamo trovare la certezza della realtà e la realtà dell’uomo è fatta delle piccole cose del quotidiano. 
Passiamo, tanto per cominciare, qualche minuto al giorno in questa meditazione, vivendo pienamente e creativamente la cosa che stiamo facendo in quel momento, qualsiasi essa sia, anche quella che giudichiamo la più insignificante. Sentiremo immediatamente una nuova sensazione sorgere in noi, una sensazione fatta di novità, di felicità, una consapevolezza di cambiamento esaltante. Ci accorgeremo che riusciamo ad assaporare ciò che stiamo facendo e, contemporaneamente, a pensare a quello che dobbiamo fare subito dopo, ma, per arrivare a questo, dobbiamo rivisitare lo stesso gesto decine, centinaia, migliaia di volte finché non sarà più ripetitivo, non più fonte di noia e di stress, ma sempre nuovo, sempre incredibilmente creativo. 
Quel semplice gesto, comportamento, azione, ogni semplice gesto, ci può far capire che siamo ‘organismi vivi’, organismi che non passano più attraverso la vita senza coglierla realmente, ma esseri umani consapevoli del presente e dell’importanza della nostra vita e della vita della Natura tutta.
Il cambiamento inizia qui, l’autorealizzazione ha queste basi

Queste mie parole non sono parole illuminate, frasi celebri, importanti, che cambieranno la storia dell’uomo, a me basta farvi vedere delle possibilità, piccole luci di consapevolezza, di speranza e di azione. Certo questo non mi porterà folle di discepoli perché io parlo del semplice ed il semplice non esalta, non incanta; parlo della realtà quotidiana e non trovi sostenitori che ti seguano realmente: dicono «Bello», ma poi continuano nella solita routine. Però, se volete veramente riprendere possesso della vostra vita e di tutte le stupende cose che essa può offrirvi, questo è il primo, vero, unico passo. 
Certo, nella nostra cultura, è molto difficile essere perché tutti gli stimoli, le spinte consumistiche, i messaggi che ci bombardano da quando siamo nati ci spingono a sognare il mondo dell’avere come il moderno paradiso terrestre. Ogni giorno cercano di convincerci che i simboli di status rappresentano la nostra realtà, la nostra realizzazione e, perché no, sono loro che compongono il nostro Sé oggettivo. E finché penseremo che noi siamo la somma delle nostre automobili, dei nostri vestiti e dei nostri soldi ci allontaneremo sempre più dal nostro centro, la nostra vera ricchezza. Non voglio dire con questo che il mondo degli oggetti non sia utile; dico soltanto che non deve diventare lo scopo unico della nostra vita. 
La ricerca interiore percorre una via verticale, come quella delle miniere di pietre preziose: dalla periferia al centro; la ricerca dell’avere segue una linea orizzontale, come quella dei tunnel autostradali: dal centro alla periferia, all’esterno da noi. 
L’esperienza non può essere compensata dal semplice pensiero, l’esperienza è applicarsi continuamente nel quotidiano. La mente serve per comprendere le motivazioni all’azione, il corpo per compiere l’azione. 
Soltanto questa continua reciprocità, al di là di ogni dicotomia, porterà ad un’estensione della coscienza che è l’unica via per arrivare alla nostra realizzazione e del nostro divino.

venerdì 23 dicembre 2016

Commento del mio vissuto nel week end 9-10 Dicembre 2016 - Parte seconda- Post di Michele Zanrei

A pranzo con Pino ho fatto un’altra riflessione.
Parlava, guarda caso, del Suono Sordo che fa una campana crepata, che nonostante si provi a riparare, non potrà più suonare come prima. 
Quante volte abbiamo sentito questa frase? Sicuramente diverse, ma quante volte ci siamo fermati a riflettere su queste semplici parole? Perché si usa dire “Fa un Suono Sordo”?
Un suono è un rumore, cosa gli interessa a un rumore il non sentire?
Se suono un tamburo o una campana, mi preoccupo del suono che fa, e non di cosa sente, anzi non avevo mai preso in considerazione che potessero anche sentire! Ma, dal momento che diciamo Sordo, intendiamo che non sente, e probabilmente questa parola non è stata usata a caso!
Proviamo, per un attimo a pensare di essere delle campane che diffondono vibrazioni.
Non possiamo farlo con la voce, che pronuncia invece parole; deve essere allora qualcosa di molto più profondo, ad emettere questa vibrazione. Qualcosa che non si può vedere, che crea la nostra personale frequenza, proprio come ogni campana crea il proprio unico suono. E cosa c’è di più profondo e allo stesso tempo leggero, invisibile e impalpabile della nostra Anima? Sarà forse Lei a suonare? O meglio a risuonare?

Eleonora Luzi: armonia e movimento

E non potrebbe essere la crepa della campana, quella che se anche proveranno a riparare farà riprodurre un Suono Sordo, la ferita profonda che una persona può avere subito nella sua Anima? Una ferita così dolorosa che ci ha fatto preferire la sordità, a questo Mondo così pieno di “suoni”? Una ferita che arrivi a non farci sentire la vibrazione delle altre “campane” e che nonostante sia suonata da un Maestro non riesca a riprodurre un suono armonico?
Allora, se siamo così simili alle campane, in realtà non siamo uguali, Noi non siamo oggetti.
E nonostante, come le campane non possono essere riparate da un artigiano, anche noi non possiamo sperare che qualcun altro “ci ripari”, noi abbiamo il potere della volontà.
Se iniziamo a crederci, ad affidarci a una voce esperta e saggia che ci faccia da guida, potremmo andare noi stessi in quel posto così nascosto, profondo, e talmente stretto che non permette l’ingresso di due persone.
Dovremo allora essere pronti a muoverci al buio senza timore, perché più si va in profondità, più il Mare diventa buio, è li che potremo trovare la grotta che noi stessi inconsciamente abbiamo scavato.
E’ proprio quando questo silenzio non ci farà più paura, che riusciremo a prenderci cura di quella parte ferita, che si era nascosta così bene da non farsi trovare per anni, così in profondità da sfuggire al Mondo esterno.
Allora potremo sentire il suono delle altre campane, e armonizzarci a esso senza la paura di perderci, senza la paura di essere influenzati, perché una volta che quel momento sarà finito, avremo la sicurezza di quello che siamo e non di cosa stiamo lasciando.
E’ per questo che quando ho parlato di Gruppo ho usato la parola Protezione, per spiegare l’emozione provata, perché non ero io e gli altri, ma eravamo un Noi.

Michele Zanrei

P.S.:
ho scritto queste righe domenica 18 dicembre, l’orario era ormai tardo e quando mi sono coricato ero talmente stanco da non riuscire a leggere neanche una pagina del libro “Il Tao per un anno” che mi da la buona notte da tanti anni. Poi ho riacceso la luce, pensando che forse avrebbe voluto dirmi qualcosa. Ho aperto su una pagina a caso per leggerne il breve racconto e il titolo era:

Suono
Il vento nella caverna:
movimento nella quiete.
Forza nel silenzio.

Grazie Pino

Michele