lunedì 3 ottobre 2016

Tratto da “Cinque meditazioni sulla bellezza” di François Cheng - Post di Rita Caprioglio

“Avendo a che fare con l’essere e non con l’avere, la vera bellezza non può mai essere definita come mezzo o strumento. Per essenza, essa è un modo d’essere, uno stato d’esistenza. Proviamo ad osservarla attraverso un suo simbolo, la rosa. In virtù di quale abitudine e deformazione la rosa ha finito col diventare l’immagine un po’ banale, melensa che abbiamo spesso in mente, mentre ci sono voluti miliardi di anni di evoluzione dell’universo per produrre questo miracolo di armonia, di coerenza e di risoluzione armonica?.
Accettiamo di posare il nostro sguardo una buona volta sulla rosa. Cominciamo col ricordare questo distico di Angelo Silesio, un poeta del XVII secolo originario della Slesia:
“La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; senza cura di sé, ne’ desiderio di essere guardata”.
Versi noti, degni di ammirazione, difronte a cui non ci si può che inchinare. In effetti, la rosa è senza perché, come tutti gli esseri viventi, come tutti noi.
Se tuttavia un ingenuo osservatore volesse aggiungere qualcosa potrebbe dire questo: essere pienamente una rosa, nella sua unicità, e assolutamente non un’altra cosa, costituisce già una sufficiente ragion d’essere. Ciò esige infatti dalla rosa che essa metta in moto tutta l’energia vitale di cui è dotata. Fin dal momento in cui il suo gambo emerge dal terreno, esso spunta in un senso, come mosso da un’inarrestabile volontà. Attraverso di esso si determina una linea di forza che si cristallizza in un bocciolo, e ben presto, a partire da questo bocciolo, prima le foglie e poi i petali si formano, si distendono, assumendo una certa curvatura, una certa sinuosità, optando per una certa tinta o un determinato profumo. Ormai, nulla potrà più impedirle di accedere al suo sigillo definitivo, al suo desiderio di compimento, traendo nutrimento dalle sostanze provenienti dal suolo, ma anche dal vento, dalla rugiada, dai raggi del sole. E tutto ciò in vista della pienezza del suo essere, una pienezza posta fin dal suo germe, fin da un remotissimo cominciamento, da ogni eternità, si potrebbe dire.
Ecco allora, finalmente, che la rosa si manifesta in tutto il fulgore della sua presenza, propagando le sue onde ritmiche verso ciò cui aspira, il puro spazio senza limiti. Questa incontenibile apertura nello spazio è simile a una fontana che zampilla ininterrottamente dal profondo. Perché se la rosa deve durare il tempo del suo destino, non può tuttavia fare a meno di trovare il suo fondamento, per così dire, nel suo inabissarsi nel profondo. Tra suolo e aria, terra e cielo si verifica allora uno scambio che trova il suo simbolo nella forma stessa dei petali, una forma così peculiare, ripiegata verso l’interno di sé e al tempo stessa rivolta verso l’esterno come in un gesto d’offerta.
Jacques de Bourbon Busset riassume tutto questo in una formula particolarmente felice: “Bagliore della carne, ombra dello spirito”.
E’ necessario infatti che la carne sia in luce e lo spirito in ombra, affinché quest’ultimo possa sostenere il principio di vita che regge la carne. Anche nel momento in cui i petali saranno caduti e ormai frammisti all’humus nutritizio, il loro profumo continuerà a permanere, come un’emanazione della loro essenza o un segno della loro trasfigurazione.

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